Zoom On Music: “Grace” di Jeff Buckley

Grace – Jeff Buckley

Anno: 1994 (23 agosto)
Prodotto da: Andy Wallace/Jeff Buckley
Registrato: Bearsville Recording Studio, Woodstock NY
Musicisti:
Jeff Buckley (voce, chitarre, organo, harmonium, dulcimer, tabla)
Gary Lucas (“magical guitarness”)
Michael Tighe (chitarra)
Mick Grondahl (basso)
Matt Johnson (batteria, percussioni, vibrafono)
Loris Holland (organo)
Misha Masud (tabla)
Karl Berger (arrangiamenti degli archi)
Andy Wallace (mixing)

Lato A
Mojo Pin
Grace
Last Goodbye
Lilac Wine
So Real

Lato B
Hallelujah
Lover, You Should’ve Come over
Corpus Christi Carol
Eternal Life
Dream Brother

Era una goccia pura in un oceano di rumore.
Bono Vox

Gli anni ’90 sono una porzione di tempo che racchiude un decennio pieno di cambiamenti e di eventi importanti per la storia dell’umanità… e della Musica, naturalmente.
Un grande numero di episodi e situazioni tristi fa da contesto storico nel quale si sviluppa ed ha il suo, per così dire, massimo picco espressivo anche una certa scena musicale, il Grunge.
Nato ben prima degli anni ’90, in quella che è la west coast nord americana ed espansosi poi anche da noi in questo decennio, il Grunge affonda le sue radici in un ambiente underground anticonvenzionale, fatto di disagi, sofferenze, droga, disordini interiori, male di vivere…
Inquietudini giovanili che vengono espresse attraverso parole di contestazione e suoni sporchi e grezzi delle band che in questi anni nascono e prendono forma in un numero sempre più considerevole, tanto che per molti oggi è ancora considerato un vero e proprio movimento socio-culturale molto ampio e complesso, a cui appartengono svariate formazioni ed artisti, ma tutti con affinità stilistiche e liriche analoghe.

In questi anni viene a mancare colui che è probabilmente considerato il maggiore “esponente” leader della musica Grunge, ovvero Kurt Cobain. Una vera tragica perdita per tutti coloro che sono nati e cresciuti, musicalmente e non, nel bel mezzo di questo periodo storico-culturale.
Ma il 1994 rimane (per la sottoscritta in modo considerevole…) un anno che verrà ricordato a lungo anche per alcune produzioni musicali, a cui vengono inevitabilmente associati determinati periodi di evoluzione psico-fisica da adolescenti disorientati e asociali.
In questo periodo, completamente assorbita dall’atteggiamento anticonformista e dal sound aggressivo del Grunge, fatico a cambiare direzioni musicali, a farmi piacere qualcosa di troppo diverso e a sentire un certo senso d’appartenenza in qualsiasi altro tipo di musica.

Eppure, qualche tempo dopo, all’incirca un paio di anni, attraverso un servizio alla tv, casualmente ascolto in sottofondo una dolce melodia che mi rapisce all’istante: è Hallelujah, cantata da un tal Jeffrey Scott Buckley.
Artista fino ad allora mai calcolato, anche se ne ricordo bene il nome. Lo conosco giusto perché viene presentato come il figlio di Tim Buckley, famoso cantastorie e folk singer americano, al pari dell’ancora più noto Bob Dylan.
La mia attitudine a non interessarmi quasi mai di tutto ciò che è comunemente apprezzato da una larga fetta di pubblico mi porta comunque ad ignorare ulteriormente questo Buckley figlio di.
Non è roba che fa per me, questo nome “altisonante”, con queste melodie un po’ troppo sdolcinate per i miei gusti… che pare esser il nuovo idolo delle ragazzine, per giunta.
Vado avanti per la mia strada sterrata e piena di rocks… grezze.
Fino a quando arriva il 1997, che si porta via questo giovane compositore/cantante in circostanze alquanto tragiche. Mi colpisce tutta la vicenda ed il mistero che pare portarsi giù in fondo a quel canale. Corro a comprare il suo unico album uscito finora, Grace, come se pensassi che bisogna comunque possedere IL disco di un artista morto in circostanze così misteriose, una sorta di reliquia da conservare.
Jeffrey Scott Buckley da Orange County, California.
Sempre la stessa west coast statunitense, ma questa è la parte più solare della costa, nota per le spiagge, il benessere e il divertimento, con Disneyland a fare da attrazione principale.
Nella musica di Jeff Buckley però non c’è niente di così esplicitamente solare e divertente, anzi.
Ma questo lo si scopre col tempo, solo dopo un partecipato ed attento ascolto dell’opera prima ed unica di questo artista.

Grace non è un disco di immediata assimilazione, è un disco un po’ sonnambulo… arriva in punta di piedi, leggero, con discrezione, per poi entrarti dentro in maniera viscerale. Non è un disco da mettere in sottofondo ad una cena con amici… a meno che… be’, non sia una cena intima, davanti ad una bella bottiglia di vino rosso.
Ne ascolti le prime tracce così, senza impegno… pensi che sia come uno dei tanti mattoni che ti obbligano a leggere al liceo solo perché si deve conoscere un certo tipo di letteratura…
E dunque cerchi anche di fartela piacere questa Grace, perché… perché infondo bisogna conoscere tutti quei dischi che in un modo o nell’altro hanno, se non rivoluzionato la storia della Musica… quanto meno l’hanno arricchita di poesia e di ispirazione.

Benchè Grace sia stato concepito e messo al mondo nell’era del Grunge, appare come un’alternativa all’alternativa scena musicale degli anni ’90, una specie di evasione dal contesto rabbioso e riottoso. Vi sono considerevoli tracce di melodie ruvide e testi cupi… Ma Grace è tutt’altro che un’opera dalle radici rozze ed aspre, è un’alchimia di elementi ricercati e non troppo convenzionali, armonie sobrie e testi poetici.

Grace è una storia d’amore,
Grace è una bellissima donna,
Grace è l’abbandono,
Grace è una preghiera,
Grace è un pensiero malinconico,
Grace è il soffio leggero che alimenta la fiamma della passione,
Grace è il manifesto degli ultimi romantici.

Grace è un fiume in piena, che traccia dopo traccia trascina via emozioni e tormenti e li fa scorrere lungo la pelle, denunandola dei rancori, della rabbia e dell’insofferenza… per rigenerarla con nobile candore e maliziosa sensualità.
Ha un’anima dannatamente soul Jeff, e in Grace esce fuori tutta.
La sua voce eterea è un aroma agrodolce che insaporisce versi poetici e mai banali, peculiarità lasciatagli in eredità dal padre, sebbene egli non abbia mai attinto dal campionario del padre per le sue composizioni, avendo un approccio forse più classico alla canzone rispetto a Tim.

Una voce armoniosa in cui si diletta nei vocalizzi più angelici, passando con disinvoltura dal falsetto più leggero al grido più potente ed incazzato. Un’estensione vocale da 5 ottave, sostiene qualcuno.
Jeff Buckley ha una qualità che si riscontra raramente nei cantanti moderni (e non), quella di saper modulare le inflessioni delle corde vocali in maniera superba, quasi celestiale.

Ed è proprio nel brano di apertura che si ha l’esempio di dove può arrivare cotanta grazia.
Mojo Pin parte lenta, alternando arpeggi fatati a sussurri angelici, il pizzicare delle corde che si sviluppa in un crescendo emotivo più disperato, con grida di dolore… sulle possenti rullate di batteria e arrangiamenti minimi. Una canzone che parla di un amore fragile, senza mai essere scontato nelle parole. Un crogiolarsi dentro un’ossessione amorosa che lo porta fin quasi a stare bene.
Del resto Jeff Buckley stesso ammette di “trovare grande gioia nelle cose che sono tristi”.
E qui sta la chiave di tutto il disco, il filo conduttore.

Ed ecco arrivare lei, introdotta da altri arpeggi delicati… la suadente ballata folk rock che dà il titolo all’album, Grace. Una passeggiata tra il paradiso e l’inferno, dove Jeff, portatore sano della contraddittorietà del mal d’amore, fa scaturire il lato oscuro della sua personalità e ci parla della morte, in maniera però languida. Grace è un’invocazione a scacciar via la paura della morte, una preghiera scaramantica. Tra i versi della title track Jeff sembra avere quasi una premonizione di ciò che gli sarebbe capitato anno più tardi: “C’è una luna che chiede di restare/ Quanto basta perché le nuvole mi facciano volare via/ Ebbene, è giunta la mia ora, non temo la morte”.
Aspetta nel fuoco, Jeff, urlando disperato…. e continua a camminare, lungo un percorso ostacolato dall’incomunicabilità che come un muro lo divide dalla sua amata… in Last Goodbye, primo singolo estratto dall’album, descrive il distacco straziante dalla sua donna. Un testo intriso di sofferenza che però viene addolcito da arrangiamenti morbidi, dove le chitarre acustiche la fanno da padrone… dando vita così ad una intensa ballata pop. Dalla delusione per la fine dell’amore arriva prepotente la richiesta: “Baciami, ti prego baciami/ Ma dammi un bacio appassionato e non di consolazione/ Mi fa così incazzare sapere che nel tempo ti darò soltanto lacrime/ questo è il nostro ultimo addio”.

Le percezioni alterate dal vino portano Jeff ad eseguire una bella ballata notturna, Lilac Wine, (prima delle 3 cover dell’album), un pezzo originariamente scritto da Jim Shelton e reso famoso da Nina Simone, cui Jeff vuole rendere omaggio con la sua quasi mistica interpretazione. Si torna a parlare dell’abbandono dell’amore e con la complicità del nettare che annebbia i sensi e spesso rende più malinconici, il protagonista ricerca mentalmente la sua lei, anche a costo di sentirsi emotivamente instabile: “Bevo molto più di quanto dovrei/ Perché mi riporta alla mente te/ Vino di lillà è dolce e inebriante/ Come il mio amore/ Ascoltami, non riesco a vedere distintamente/ E’ forse lei che sta tornando da me?
Un intro di cupe note di chitarra ci porta in una dimensione onirica e quasi claustrofobica… So Real, terzo singolo di Grace, è il sogno/incubo, che per Jeff è come realtà. “Ti amo/Ma ho paura di amarti”. Un pezzo rock vigoroso, dalle chitarre distorte, con un ritornello ipnotico e l’urlo di Jeff che rendono la sua visione onirica ancora più inquieta.

Decisamente un’altra atmosfera si crea col brano successivo, la seconda cover del disco: Hallelujah, scritta da Leonard Cohen.
Una toccante e coinvolgente interpretazione di Buckley veste questa canzone di un abito seducente, la eleva spiritualmente a capolavoro, forse il vero picco emotivo di Grace.
Con passione e sensualità descrive l’intreccio di vicende bibliche e vita moderna, glorifica l’amore e la donna che ama. “C’è stato un tempo in cui mi permettevi di sapere/Cosa davvero succedeva là sotto/Ma adesso non me lo mostri mai, non è vero?/Ricordi quando mi muovevo in te?/Anche la Sacra colomba si muoveva/E ogni respiro nostro era Alleluia”.
Chiunque la ascolti attentamente scopre che è una canzone sul ses, sull’amore e sulla vita terrena. Non è un hallelujah per una fede, un idolo o un dio, ma l’hallelujah dell’orgasmo. È un’ode alla vita e all’amore.”(J.B.)
Da uno stato d’animo inebriato dall’amore fisico Jeff torna a cantare la malinconia che lo assale nel distacco dalla sua donna.. Lover, you should’ve come over si apre con uno spettrale suono di harmonium, seguito da dolci chitarre acustiche, una ballata in cui il Nostro realizza l’impossibilità di mantenere vivo il suo amore perché lei è più matura e lui ancora troppo giovane… ”Forse sono troppo giovane/Per impedire all’amore genuino di rovinarsi”.

Terza ed ultima cover del disco Corpus Christi Carol, scritta da B. Britten, è probabilmente il pezzo che esalta meglio le qualità vocali di Jeff in Grace. Una melodia solenne, un cantato angelico e lirico, ne fanno una gradevole variazione sul tema principale dell’opera e la arricchiscono di religiosità.
Eternal Life è un altro pezzo rock dai ritmi potenti fin dall’intro, forse l’unica traccia che esula veramente dal concetto sentimentale-romantico del disco. Un pezzo che risente molto del contesto socio-politico del periodo in cui viene scritto, un pezzo “contro”… del resto Jeff Buckley rimane pur sempre un figlio del Grunge. Con versi piuttosto energici accompagnati da chitarre graffianti, Jeff “polemizza” (in contrasto col titolo del brano) sul fatto che la vita è troppo breve per passarla a cercare di fregare il nostro prossimo, a prevaricarlo, a controllarlo… “Non c’è più tempo per l’odio, solo domande/Dov’è l’amore?Dov’è la felicità?Cos’è Vita?/Dov’è pace?Quando troverò la forza che mi renderà libero?
Dalla rabbia per ciò che è il male che ci circonda, si torna ad una dimensione onirica, abbellita ancora una volta da arpeggi fatati… Dream Brother è un canto psichedelico, dal sapore orientaleggiante ed esotico. La voce si fa più fievole e il suono ammaliante…facendo scivolare l’ascoltatore in un mood quasi mistico. Un alone di mistero avvolge questa nenia…Nel testo di questa canzone si può in qualche modo leggere una premonizione del destino riservato a Jeff: “I tuoi occhi al suolo/E il mondo che gira in tondo in eterno/Ti addormenti tra la sabbia con l’oceano che sciacquando ti copre”. Un brano che risente fortemente del legame col padre scomparso, quasi un congedo da quella figura sempre rimasta così distante ma così vicina allo stesso tempo…

Grace non è un album triste, è un disco intriso di malinconia, introspettivo al limite dell’isolamento… ma non è un rifugio per depressi. Un disco che vanta finezze tecniche e testi poetici. Un cantautore che con la sua estensione vocale è capace di fondere virtuosismi e carica emotiva… Tutto questo permette a Grace di vivere in una dimensione quasi completamente slegata dal tempo e dal periodo in cui è nata…

*gloria* (gloria)

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