Zoom on Music: “Revolver” – The Beatles

Revolver
The Beatles

Anno: 5 agosto 1966
Musicisti:

John Lennon (voce, chitarra ritmica, chitarra acustica, cori)
Paul McCartney (voce, basso, chitarra ritmica, pianoforte, cori)
George Harrison (voce, chitarra solista, basso, sitar, cori)
Ringo Starr (voce, batteria, percussioni, tamburrello, maracas)

Tracklist

Lato A
01. Taxman
02. Eleanor Rigby
03. I’m only sleeping
04. Love you to
05. Here, there and everywhere
06. Yellow submarine
07. She said, she said

Lato B
01. Good day sunshine
02. And your bird can sing
03. For no one
04. Doctor Robert
05. I want to tell you
06. Got to get you into my life
07. Tomorrow never knows

“Ormai siamo più famosi di Gesù Cristo”
(John Lennon)

Scrivere dei Beatles oggi è un’impresa alquanto ardua, difficile, quasi impossibile. Tutto è stato già detto, e tutto è alla portata di tutti. Anche chi mastica poco di pop e rock, sa (o cerca di sapere) benissimo chi erano i bislacchi personaggi che hanno fatto parte della “band più famosa di Gesù Cristo”. Tutti sanno cosa c’era dietro quelle apparenti facce pulite da bravi ragazzi, ai quali nessuna mamma e nessun papà, al contrario che con i Rolling Stones, avrebbe mostrato remora alcuna a consegnar loro la loro figlia perché uscisse con loro il sabato sera. Moltissimi si cimentano a criptarne i messaggi nascosti nei solchi dei loro brani e nelle copertine dei loro dischi; a voler capire se Paul McCartney è morto oppure no; a voler capire se il Maharishi Mahesh Yogi sia stato per lui una guida spiriturale o solo uno squallido approfittatore che succhiò loro molto denaro; a voler realmente capire cosa portò loro allo scioglimento; a voler realmente capire se Mark Chapman (l’assassino di John Lennon) fosse un pazzo o un agente segreto della CIA. Molti sono quelli affascinati e ossessionati da quel tenebroso senso di “mistero” che aleggia sul loro mito. Si sono spesi alla bisogna fiumi di inchiostro, ore e ore di programmi Tv o radiofonici, e la rete è piena di siti dedicati ai Beatles… Scrivere dei Fab Four quindi diventa un’impresa davvero difficile. Quasi impossibile non ripetere cose già dette. Ma considerato il fatto che proprio quest’anno ricorrono i cinquantanni dal loro primo singolo (Love me do/P.S. I love you, 5 ottobre 1962), non possiamo non correrne il rischio.
I Beatles nascono sul finire degli anni ’50, in una Liverpool operaia, fatta di scuole, college, chiese, pub… Qui, un giovanotto di nome John Lennon, appena sedicenne, mette su un gruppo, i Quarrymen. La storia vuole che la sera del 6 luglio 1957, durante la festa parrocchiale della chiesa di St. Peter, John incontri un ragazzo altrettanto abile con la chitarra: Paul McCartney, che entra a far parte subito del gruppo. Dopo Paul, entrerà a far parte del gruppo un altro ragazzo altrettanto talentuoso: George Harrison. Oltre questi già faceva parte dell’ensable il bassista Stuart Sutcliffe (che si spegnerà il 10 aprile 1962 a causa di un’emorragia cerebrale, lasciando poi il basso a Paul). Mancava alla formazione un batterista fisso. Nel 1960, dopo aver passato diverse sigle, si decide che il nome del gruppo debba essere The Beatles (che più tardi verrà tradotto in italiano con un bislacco e alquanto inesatto “Gli scarafaggi”). Dopo aver preso in formazione Pete Best alla batteria, il gruppo si trasferisce per un periodo di tempo (comunque intervallato da diversi ritorni in Patria) di due anni in Germania, ad Amburgo, messi sotto contratto da Bruno Koshmider, che vorrebbe cambiare il suo locale, l’Idra, da club a luci rosse a locale beat. Un periodo difficile, pieno di vicende assurde, in cui comunque la band “si fa le ossa”. Al termine di questo periodo, la band decide di allontanare Pete Best a favore di Ringo Starr, ed entra in scena Brian Epstein, il loro primo manager, che morirà suicida nel 1967. Quello che succede da qui in poi è leggenda: i Beatles diventano l’icona della cultura pop per eccellenza. Le loro canzoni, semplici, orecchiabili e dirette sono la chiave interpretativa di una “rivoluzione culturale” forse senza precedenti nel mondo giovanile. La loro stessa immagine al tempo stesso “mood” e sopra le righe (soprattutto i caschetti quasi spettinati, che precederanno da lì a poco la stagione dei “capelloni”), i loro spettacoli che via via si riempiranno di ragazzine urlanti, sono qualcosa di più di un semplice “fenomeno di massa”: è una rivoluzione vera e propria. Una rivoluzione in cui la musica si fa portatrice di nuovi ideali. Una rivoluzione che non imbraccia armi. Forse nemmeno loro lo sapevano all’epoca, ma i Beatles sono un fenomeno fondamentale per comprendere la cultura giovanile del Novecento.
Quale album allora scegliere? Anche qui la scelta diventa molto ardua. Perché ad una prima impressione verrebbe da rispondere che andrebbero bene tutti, perché ognuno di essi rappresenta un tassello di quella “rivoluzione”, ma ci orientiamo verso quel disco che non pochi ritengono come uno dei più belli e rivoluzionari della storia del pop: Revolver.
Preceduto dalla frase (sciagurata o geniale, fate voi) di John Lennon, per il quale “ormai i Beatles sono più famosi di Gesù Cristo”, Revolver è l’album che apre definitivamente ai Fab Four la strada del rock psichedelico e delle contaminazioni, discostandosi dal beat frenetico e dal pop romantico dei dischi precedenti, e lanciando un ponte verso le sperimentazioni sempre più articolate dei lavori seguenti. Un crocevia senza alcun dubbio, non solo per la carriera dei Beatles, ma anche per il pop a venire. Se Rubber soul dell’anno precedente aveva rappresentato la maturità, Revolver ora rappresentava la follia creativa allo stato puro. Basti prendere gli episodi che aprono e chiudono l’album per rendersi conto di ciò: l’acida Taxman, dove ci si scaglia violentemente contro il sistema fiscale britannico, alla lisergica Tomorrow never knows, frutto veramente compiuto di viaggi fatti in acido. Lo studio di registrazione diventa un vero e proprio habitat sperimentale (e da qui in poi i Beatles non faranno più spettacoli dal vivo, il che non può essere una considerazione marginale, tenendo presente il loro nuovo approccio artistico), e ogni strumento a loro disposizione un’occasione da sfruttare. In questo contesto prendono corpo la orchestrale e oscura Eleanor Rigby, dove si accenna a un certo Father McKenzie che sta preparando un sermone per una cerimonia a cui nessuno assisterà (il funerale del vero Paul McCartney? Del resto anche il profilo di Paul in copertina, defilato rispetto a quello degli altri membri del gruppo lascia molto a pensare, secondo alcuni), l’indolente ballata I’m only sleeping, For no one, indiscutibilmente uno dei massimi capolavori usciti dalla penna del Macca, l’apparizione del sitar in Love you to, il romanticismo di Here, there and everywhere, o il tono scanzonato di Yellow submarine (che diventerà presto un film). Si procede per viaggi in LSD con She said she said, alle più scanzonate Good day sunshine, And your bird can sing, Doctor Robert, o alle più complesse I want to tell you e Got to get you into my life. Quattordici brani che univano la costellazione di qualcosa di veramente unico, al suono di una “musica che nessuno ha mai fatto” (Paul McCarteny). La strada intrapresa porterà ad ulteriori capolavori quali Sgt. Pepper’s lonely hearts club band, Magical mystery tour, The Beatles meglio conosciuto come il White album, per poi tornare su terreni più convenzionali con Abbey Road e l’epitaffio Let it be. Il resto: la nomina a Baronetti, il vero Paul McCartney, le droghe, Charles Manson, il linguaggio subliminale, Yoko Ono, gli interessi esoterici, il pacifismo non sono altro che “movenze misteriose o misteriche” di un viaggio affasciante. Quello che appare evidente in tutto quello che si è detto, che si dice e si dirà ancora di loro è che i Beatles vanno al di là dello status di eroi generazionali. Sarebbe più giusto considerarli “rivoluzionari universali”.

“Nei Beatles c’è un eco di Stravinskij: sia negli uni che nell’altro vi è un languore che non si sa se attribuire più ad un’acerba giovinezza che ad un senso di mortale stanchezza”
(Carlo Levi)

Pasquale Pierro

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