Zoom On Music: The Velvet Underground & Nico (Andy Warhol)

The Velvet Underground & Nico

Anno: 1967
Prodotto da: Andy Wharol, Tom Wilson
Registrato: Scepter Studios, New York; T.T.G. Studios Hollywood, California; Mayfair Sound Studios, New York
Formazione: Lou Reed (voce, chitarra), John Cale (viola, piano, celesta, basso, voce), Sterling Morrison (chitarra, basso, voce), Maureen Tucker (batteria), Nico (voce, cori)

Lato A
1. Sunday Morning
2. I’m Waiting for the Man
3. Femme Fatale
4. Venus in Furs
5. Run Run Run
6. All Tomorrow’s Parties

Lato B
1. Heroin
2. There She Goes Again
3. I’ll Be Your Mirror
4. The Black Angel’s Death Song
5. European Son

Soltanto cento persone acquistarono il primo
disco dei Velvet Underground, ma ciascuno di
quei cento oggi o è un critico musicale o è un
musicista rock” (Brian Eno)

Forse se lo dice Brian Eno c’è da credergli, e forse varrebbe la pena avere una copia di Velvet Underground & Nico in casa anche senza avere una voglia irrefrenabile di imbracciare una chitarra o scrivere su Mucchio Selvaggio.
Tentare di analizzare in maniera convenzionale il disco della banana utilizzando i canoni classici del recensore molto probabilmente equivarrebbe a perdere per strada gran parte del significato intrinseco di una delle opere più belle ed influenti del ventesimo secolo, sarebbe un pò come parlare di Dio e non accennare al fatto che un bel giorno Lucifero si ritrovò qualche piano più sotto o forse ancora chiedere a David Lynch di rivelare il significato della propria arte.

No… forse è proprio il caso di Peel Slowly and See, immergersi piano piano nelle note del disco cercando di immedesimarsi piano piano nelle figure di Lewis Allan Reed & Co e cercare di catturare quanto più l’essenza dell’arte del quintetto newyorchese, valicando in un primo momento etichettature o inutili esercizi di stile e dando vita ad una esperienza quanto più sensoriale. Insomma su le cuffie e silenzio perchè, come affermava Andy Wharol:

Si ha più potere quando si tace, perchè così la gente comincia a dubitare di se stessa.

Ma si forse Velvet Underground & Nico non è un album violento ne tantomeno perverso, anzi è suonato anche bene ed in maniera ortodossa; l’incipit Sunday Morning è una filastrocca elettrica, una ninna nanna anomala della domenica mattina che sprigiona quasi serenità, ma allo stesso inganna, è velenosa, ipnotica e ti avverte che l’incubo metropolitano sta per cominciare. Indubbiamente questo dolce esordio del disco contiene in se anche il massimo sforzo di produzione dei primi VU ed è un classico saggio del talento compositivo della coppia Reed/Cale. Il sogno finisce presto o meglio diventa incubo, con I’m Waiting for the Man si torna per le strade di New York, a trovare l’uomo delle anfetamine, nella parte “sbagliata” della città, lì dove si forma la “controcultura” o forse dove si muore e basta, in quei posti in cui intonare gli inni alla pace o mettere una camicia a fiori (cultura hippy) non basta a darti un senso; qui si va di cadenza plagale (anche gli Stones usavano molto la forma DO-FA-DO-FA) e Reed sale in cattedra con un tono monocorde e a tratti ossessivo, da li a poco gli Stooges ne avrebbero fatto tesoro.

E’ con Femme Fatale che Velvet Underground & Nico comincia a dispiegare tutto il proprio nervosismo, alternandosi tra ballate malate e oniriche, acide alchimie di Cale o ancora cavalcate distorte capeggiate da Reed e Morrison. Femme Fatale potrebbe apparire come un rapido ritorno alla pacatezza, ma dietro la voce profonda e glaciale di Nico, dietro un’ingannevole malinconia si cela il presagio della perversione, è l’antipasto di Venus in Furs nella quale la perversione trova il suo massimo “splendore”: Cale in regia di comando, avvolge con le urla della sua viola un incedere psichedelico ed insano, a sostegno di un raccondo morboso, di proibita sessualità.

La Factory di Wharol e i sobborghi metropolitani, le trasgressioni vissute in prima persona contribuirono senz’altro in maniera determinante alla poetica dei VU. La tribalità di Venus in Furs lascia il passo ad uno degli episodi più leggeri del Disco, Run Run Run che riporta l’ascoltatore in territori rock più tradizionali senza accantonare però quelli che sono due elementi tipici dei VU, il senso di alienazione, i ritmi ossessivi. La nevrosi ritorna in All Tomorrow Parties, una ballata in cui il cantato oscuro e notturno di Nico, i sinistri echi di Cale ed i fraseggi stranianti rappresentano il manifesto ante litteram del dark (Desert Shore di Nico farà il resto) e delineano senza qualsiasi ombra di dubbio i canoni del dark e del decadentismo musicale. Difficilmente i Bauhaus di Peter Murphy sarebbero stati i Bauhaus o Brendan Perry e Lisa Gerrard avrebbero formato i Dead Can Dance.

Ci siamo, eccoci arrivati ad uno degli inni più autodistruttivi che il rock abbia mai partorito, Heroin. La dinamica del pezzo, che nasce sulle note di un grazioso arpeggio, è la giusta perifrasi musicale del veleno che entra nelle vene e inonda tutto il corpo. La cupa viola di Cale e la voce baritonale di Reed assecondano il crescendo del brano che ben presto assume connotati distorti e violenti; non c’è intento catartico, non c’è denuncia, non c’è speranza, è solo decadenza totale e angoscia lancinante, compiacimento puro per la propria impurezza.

Ancora una volta i VU cercano involontariamente di portare il disco su binari più tradizionali e con There She Goes Again viene quasi da pensare che non ci sia Oceano che separi New York da Liverpool tanto che il ritornello porta alla mente un beat non estraneo a Beatles o agli stessi californiani Beach Boys. Con I’ll Be Your Mirror torna improvvisamente la voce cupa di Nico che impreziosisce una ballata dal sapore molto classico e retrò. Il duo finale The Black Angel’s Death Song e European Son rimangono nell’immaginario collettivo come uno dei primi tentativi di destruttrazione totale della canzone “pop”. L’omaggio a Delmore Schwartz, uno dei primi maestri di Reed, si manifesta prima nella viola paranoica di Cale in The Black Angel’s Death Song ed in seguito nell’agghiacciante e “visionaria” orgia chitarristica di European Son, costellata da imprevedibili e incontrollabili feedback (i Sonic Youth ne faranno una religione qualche decade dopo).
European Son, quasi ad anticipare in forma primordiale Metal Music Machine del Reed solista, costringe l’ascoltatore a violentare il proprio gusto: non rimane che implorare che la testina vada fuori dal giradischi per mettere fine all’incubo.

The Velvet Underground & Nico brilla per la capacità di unire ad una complessità sonora e compositiva, una forza d’urto verso l’ascoltatore con pochi eguali. Considerare il disco seminale per un genere musicale o per un decennio di produzioni risulterebbe alquanto limitante. La follia metropolitana di questo disco ne fa un faro trasversale su 60 anni di musica, e molti amanti e studiosi del disco giurano che la sua scia non è assolutamente destinata a svanire. Lo stesso Exploding Plastic Inevitable, spettacolo visivo che accompagnava le esibizioni della band, testimonia la lungimiranza di Warhol e dei VU nel proporre una commistione di arti anticipando una formula che diventerà molto comune anche nel mainstream anni ’90.

Tutti pagano un debito alla allegra/depressa compagnia newyorchese, autori di uno dei dischi più politically incorrect della storia della musica; il Disco è infatti condito da geniali melodie pop che ancora oggi godono di naturale freschezza, ma contemporaneamente nell’opera dei VU & Nico è ravvisabile il nichilismo tipico di quello che poi si chiamerà punk ma anche l’atteggiamento dark di cui tutta la new wave anni ’80 è permeata. E se mai qualche artista un giorno vi dirà che i VU mai hanno fatto capolinea nella propria musica allora sarà lecito pensare alla malafede… oppure forse qualcuno si è sbagliato… i critici? o forse i musicisti rock?

zooman

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