Zoom on Music: “Vitalogy” dei Pearl Jam

 

Vitalogy
Pearl Jam

 

Anno: 1994 (6 dicembre)
Prodotto da: Brendan O’Brien e Pearl Jam
Registrato: da Brendan O’Brien a Seattle, Atlanta, New Orleans (eccetto Stupid Mop, registrata e mixata da Brett Eliason)

Musicisti:
Eddie Vedder (voce, chitarra, accordion)
Jeff Ament (basso, standup, cori)
Stone Gossard (chitarra, mellotron, cori)
Mike McCready (chitarra, slide, cori)
Dave Abbruzzese (batteria)
Jack Irons (batteria in Stupid Mop)

Division one:

Last exit
Spin the black circle
Not for you
Tremor Christ
Nothingman
Whipping

Division two:

Pry, to
Corduroy
bugs
Satan’s bed
Betterman
Aye davanita
Immortality
Stupid mop

Sembra una cosa semplice, quasi immediata, definire una corrente musicale associandola al nome di una band, semplificando il tutto alla copertina di un album, al riff iniziale di una chitarra distorta, alla voce roca di un cantante che narra la sua agonia interiore… Si, nulla di più semplice e immediato, nulla di più sbagliato e sminuente.
Chi di voi, nell’udire la parola Grunge, non è incappato nell’immaginario comune del volto triste e un pò vago di Kurt Cobain, chi di voi non si è subito messo a canticchiare il ritornello di Smell Like Teen Spirit o a pensare alla copertina di un bambino che viene attratto da un’esca fatta di dio cartaceo? Pochi, forse pochissimi. Io stesso l’ho fatto, quando ancora non ero conscio di cosa rappresentasse in realtà il Grunge, che cosa significasse questa parola.
Una corrente di pensiero, un taglio alle smielate sonorità rock anni ’80, la necessità di estirpare con la propria musica, con le proprie emozioni e sentimenti quella che era l’angoscia, la rabbia, la paura e la frustrazione di una società al termine di un decennio in cui la televisione e i mass media iniziavano sempre più a prendere il soppravvento e il controllo su ogni cosa. E’ in questo modo che si entra nel significato della parola Grunge.. sporco, rozzo, malmesso, qualcosa di grezzo ma al tempo stesso puro, non plastificato e celato sotto una patina di finte lucentezze e cromature che il rock era arrivato oramai a trasmettere. Entrano in gioco così tutte quelle band, diverse sonoricamente tra di loro, ma unite nella filosofia e nel luogo di nascita, mai come in questo caso riconducibile ad una sola città, Seattle. Nascono gruppi come Mother Love Bones, Mudhoney, Soundgarden, Nirvana, Alice in Chains, L7, Screaming Trees, Green River e Pearl Jam. E con essi il clamore e il successo mondiale che attirerà le gioie di milioni di fans e tutte le attenzioni dei media e dell’industria musicale, che per prima si lancerà su questo nuovo filone aurifero attingendone a piene mani, stipulando contratti milionari, creando e distruggendo band, nutrendosi di soldi e fama, digerendo ricchezza e creando i presupposti di un triste e veloce declino. Un declino che verrà documentato con pura e semplice musica istintiva in un album unico nel suo genere, la cui genesi sarà data dalla totale rabbia scatenata da quello che purtroppo diverrà un cancro affamato e inesorabile. L’album è Vitalogy, sto parlando dei Pearl Jam.

Il 1994 è un anno difficile per i cinque di Seattle, nonostante le discusse decisioni di non girare più alcun video musicale e di negare qualsiasi rilascio di interviste, il peso della notorietà si fa sempre più opprimente. La caccia all’intervista e allo scoop nei confronti del leader Eddie Vedder  diventa qualcosa di asfissiante. La band è oltretutto sull’orlo di una crisi interna, troppo nette le divisionio tra il batterista Dave Abbruzzese e il resto della band. Tutti preamboli che sembrerebbero portare la band verso la sua veloce distruzione, ma che invece permettono loro di concepire un disco che rappresenta tutt’oggi un simbolo non solo dell’epoca Grunge, ma di tutta la storia del Rock contemporaneo.

Non appena si preme il tasto play ci si rende subito conto di trovarsi davanti a qualcosa di totalmente diverso rispetto ai primi due album. Sia Ten che Versus aprivano le danze con canzoni di forte impatto, con sonorità calde e quasi tendenti all’heavy metal.  Last Exit non è certo da meno, ma ci si rende subito conto che le sonorità sono completamente differenti. I suoni risultano essere più secchi e duri. Le percussioni di Abbruzzese sembrano quasi provenire da un cantiere edile in cui il lavoro si sviluppa incessantemente da mattina a sera senza interruzioni. Ament al basso ricama melodie in sottofondo che si mescolano perfettamente, non tanto alla batteria, ma molto di più alle chitarre di McCready e Gossard, che danno origine ad un flusso di accordi quasi monotono in cui le nostre orecchie vengono sbattutte qua e là quasi a voler farci entrare nella mente del protagonista, aspirante suicida allo stesso modo di Deep (Ten),  la cui vicenda ci viene narrata dalla sempre sublime voce di Vedder.

La prima traccia finisce, le nostre orecchie che quasi sono state anestetizzate dalle secche percussioni di Abbruzzese vengono stavolta messe a durissima  prova dai violenti riff di chitarre con cui si apre la seconda traccia di Vitalogy, Spin the black circle. Le chitarre sembrano urlare alla stessa maniera della voce di Vedder che corre veloce e furiosa sulle corde vocali esibendosi in una prova di screaming indiavolato che non ha eguali e che ci dice di farlo girare quel maledetto cerchio nero, di farlo girare e girare e il disco di Vitalogy è per l’appunto colorato di nero come i vecchi vinili, e il nostro disco gira, gira come non mai ad una velocità furiosa in cui la batteria di Abbruzzese è come sempre un martello pneumatico a cui nemmeno il muro più duro può resistere.

Terminato questo incredibile impatto sonoro, ecco che parte Not for you, prima canzone del disco in cui si nota l’avversità della band nei confronti di quello che sta diventando il Grunge in quel periodo dopo un così veloce e fulminante avvio iniziale. Le case discografiche sono le prime imputate nel testo aggressivo di questa canzone dove la voce di Vedder è calma, quasi a voler constatare con razionalità quello che sta accadendo alla sua “tavola imbandita”, al Loro autodefinirsi “suoi amici”. Ma poi inizia a scaldarsi, a riempirsi di rabbia di fronte all’ineluttabilità dell’azione massacrante dei discografici. La voce si alza, la melodia in essa si trasforma via via in un urlo rauco e collerico, “hey, ho apparecchiato la tavola solo per due, voi che cazzo ci fate qua, questo non è per voi, andatevene affanculo questo non è per voi!”.

Passata la rabbia e il livore si arriva a Tremor Christ, canzone dettata dal ritmo quasi alienante delle chitarre di Gossard e McReady,  ma la cui vera melodia si snoda all’interno del basso di Ament, che si distacca dal classico duo Drum and Bass prendendo la sua deriva sonora come inseguendo il senso del testo in cui il protagonista, in balia dell’oceano, stanco e affamato si lascia andare alla desolazione della perdita di qualcosa di prezioso, e la voce di Vedder , quasi cantilenante, ci accompagna in questo oblio sempre più dall’esito scontato, come l’alzarsi della sua voce al culmine della canzone in cui rabbia e costernazione sembrano trovare il loro benessere all’interno di un album in cui di certo non sono la felicità o l’accettazione delle cose a farla da padrone.

Finita l’alienazione ecco che il disco subisce una sferzata quasi violenta da quanto risulti essere magnificamente dolce e allo stesso tempo malinconica l’apertura di Nothingman, canzone in cui la lentezza del ritmo e la sublime delicatezza della voce di Vedder vogliano raccontare una storia di divisone in cui i presupposti si erano già venuti a creare con lo struggente testo di Black (Ten). Come già detto, non c’è spazio per la felicità in questo disco, e nonostante il suono delicato creatosi con l’unione perfetta della chitarra di Gossard a scandire la melodia assieme al basso e la batteria di Ament e Abbruzzese, il senso della canzone è quello di una divisone ormai concretizzata e insanabile a cui nulla si può se non accettare, prenderne atto e andare avanti, nella speranza di bruciare per poter diventare qualcosa di diverso.

Improvviso come era stato lo stacco tra le prime quattro tracce e Nothingman, ecco che lo diviene ancora di più il passaggio tra quest’ultima e Whipping, canzone che fin dal primo secondo di ascolto è pervasa da un forte ritmo incalzante che sembra voler strizzare l’occhio a quella che qualche anno prima era stata Pushin forward back dei Temple of the dog in cui le voci di Cornell e Vedder, seppur diverse sembrano correre parallele lungo l’unico ed inossidabile filo conduttore del puro Rock n’ Roll.

Pry to non è altro che un breve stacchetto che però, con la ripetuta frase “la vita privata è senza prezzo per me” sembra voler introdurre una delle canzoni più famose dell’album e dell’intera discografia dei Pearl Jam, Corduroy. Le case discografiche non sono le uniche imputate nella lacerazione spirituale dell’epoca Grunge e questo i Pearl Jam lo scopriranno a loro spese iniziando una lunga e inutile battaglia legale contro il colosso Ticketmaster, reo di appropriarsi indebitamente con la vendita dei biglietti dei concerti della band di Seattle, di una grossa fetta di denaro in nero. Corduroy si apre con uno dei riff più azzeccati dell’intera discografia dei Pearl Jam. La canzone si sviluppa sulle onde perfette del più classico dei pezzi Rock, mentre le liriche di Vedder sono le più chiare in assoluto “non voglio prendere ciò che potete dare, morirei di fame piuttosto che succhiare dal vostro seno,  tutte le cose che gli altri vogliono per me, non possono comprare ciò che voglio, perché è gratis”. Il brano si conclude con un perfetto valzer armonico di chitarre distorte in cui accordi e singole note si uniscono in un unico suono che trasporta il piacere dell’ascoltatore fino alla dissolvenza finale del brano.

Stanchi e forse anche un po’ stufi di questi continui rimandi al Rock? Non preoccupatevi, è l’ora degli insetti. Sembra quasi una presa in giro ma non lo è, è pura realtà. Bugs è forse uno degli esperimenti più inusuali dell’intera discografia dei Pearl Jam. Un brano interamente caratterizzato dal suono monotono di una fisarmonica suonata dallo stesso Vedder che va di pari passo con la voce quasi terrorizzata dello stesso cantante, “ho bachi sulla finestra, stanno provando ad entrare… che cosa posso fare? Ucciderli? Diventarne amico? Mangiarli?”. Bugs è quella canzone che di sicuro non entrerà nella playlist dei pezzi preferiti dei fans, ma rappresenta di certo un ottimo stacchetto all’interno di un album dalle tinte rabbiose e declinanti in cui l’imputato massimo rimane sempre lo stesso (l’industria discografica) anche all’interno di questo pezzo dalle tinte quasi surreali, , “li guardo mentre decidono il mio destino… ora invece mi fermo, mi spoglierò e diventerò un tutt’uno con loro”.

Disorientati dal suono allucinenogeno e monotono di Bugs? Niente paura, ecco che si riparte con il brano con il testo forse più esplicito che si possa ritrovare all’interno dell’album e forse all’interno di tutta l’intera discografia dei Pearl Jam. Satan’s Bed si apre con un rumore di frustate per poi partire chiaro e deciso con il sound tipico della band che per i Pearl Jam e Vedder in particolare rappresenta il punto di riferimento, quello dei Ramones. La voce di Vedder sembra quasi schernire il diretto imputato di questo testo, un Satana che di certo non è quello che alberga nell’ultimo rione dell’inferno dantesco, ma una creatura molto più umana contro cui la band si schiera apertamente “chi ha inventato il modello per cui siamo nati per diventare ricchi? Chi ha inventato il modello che siamo nati per essere coperti di felicità?

Terminato l’ascolto di Satan’s Bed il sipario cala su quello che è il senso generale dell’album per aprirsi invece su qualcosa di molto più devastante. È difficile anche solo poter pensare di trovare le parole per descrivere un pezzo così intimo e privato come Betterman. Cercare di fare una descrizione di un pezzo del genere vuol dire assicurarsi il suo sminuimento e danneggiamento. Un brano in cui Vedder racconta la sua vicenda personale impersonificando quelli che potevano essere i pensieri di sua madre, che sembra cercare di autoconvincersi che non può trovare un uomo migliore. L’uomo in questione non è il padre del cantante, l’uomo in questione è quello che si fece credere come suo padre nascondendogli la verità per ben diciott’anni (il vero padre divorziò dalla madre quando il cantante ne aveva appena due). Betterman, pubblicata su Vitalogy, è comunque un pezzo che fu scritto dal cantante molti anni prima, e che fu già proposto live nel 1989 dai Bad Radio, prima band in cui Vedder militò. Celebre la sua introduzione in uno dei concerti più belli della storia della band, quello di Atlanta del 1994, “this song is written long time ago. It’s dedicated to the bastard who married my mama”.

Aye Davanita non è altro che una canzoncina di stacco tra quelli che rappresentano i due picchi più alti dell’intero album che volge ormai alla sua conclusione. Se Betterman rappresenta un momento di culmine personale per Vedder, Immortality rappresenta in tutto e per tutto il momento culminante di tutto l’album e di sicuro la canzone che ogni fan della band sogna di poter ascoltare almeno una volta nella propria vita. Nonostante sia stata scritta durante una seduta di registrazione dopo il concerto di Atlanta (a detta di Eddie Vedder), e quindi antecedente al ritrovamento del cadavere di Kurt Cobain, molti fans sono tutt’oggi convinti che in realtà la canzone sia stata scritta a seguito della sua morte (cosa che Eddie Vedder ha sempre comunque smentito). L’arpeggio di chitarra con cui si apre la canzone sembra già essere pregno di quella desolazione e senso di impotenza nei confronti dello show business che la canzone vuole trasmettere, basso e batteria si fondono dando vita a quello che è il suono decisamente più denso e ricco di tutto l’album. La voce di Vedder ricama liriche di abbandono che, nonostante la freddezza del loro significato (“vuota è la parola, la vendetta non ha posto così vicino a lei, non si può trovare pace in questo mondo”), riscaldano le nostre percezioni sonore con una prova vocale superlativa nella sua semplicità. Immortality fluisce come un placido fiume all’interno del suo letto colmo di ruvidi detriti fino ad arrivare ad un punto in cui il suo corso sembra restringersi e il suo moto all’inizio costante inizia ad acquisire velocità e forza… è l’assolo di Mike McCready, un assolo che parte quasi trattenuto, come le acque che per prime trovano l’ostruzione dell’orografia circostante, si stringono, rallentano, quasi si interrompono di fronte ad una barriera che sembra serrarne il moto, ma che alla fine nulla può, perché il fiume si gonfia ed esplode in un’unica e roboante corsa verso la libertà, esattamente come la melodia di McCready, le cui note sembrano trattenersi, quasi soffocarsi le une sulle altre per poi infuocarsi ed esplodere in un incredibile orgasmo sonoro senza eguali. Anche la voce di Vedder inizia a correre, corre nel buio e non può fermare i pensieri, è spogliato e venduto all’asta, privato di un braccio, privilegiato come una puttana e vittima su richiesta di uno spettacolo pubblico per poi essere spazzato via come polvere dalle crepe del pavimento. Benchè la canzone non voglia parlarne, o comunque ispirarsi direttamente al dramma di Cobain, inevitabile è pensare a lui quando dalle labbra di Vedder scivolano fuori le ultime parole di un testo meravigliosamente crudele… Qualcuno muore solo per poter vivere

Il disco si conclude con un brano, Hey Foxymophandlemama, That’s Me, che è in assoluto il brano più strano che i ragazzi di Seattle abbiano mai scritto. A dirla bene sembra quasi un non brano, dove la voce non è quella di Vedder ma quella astratta di una ragazzina (o scopa) che si esprime a frasi ambigue e talvolta prive di significato o che comunque non seguono un contesto vero e proprio. Di sicuro la canzone (o stacco, o esperimento, o burla) più controverso dell’album. Non ci sono vere e proprie melodie, il suono della chitarra si riduce ad essere una semplice distorisione sonora dovuta alla vicinanza degli amplificatori. L’unico vero strumento riconoscibile è la batteria, ma a suonarla non è più Dave Abbruzzese, è Jack Irons. Ebbene si, ciò  che era ormai nell’aria da tempo è accaduto, le strade di Abbruzzese e quella del resto della band si sono divise. Troppo diverse le ideologie, troppo netti i contrasti tra Vedder e il batterista che con il progredire del tempo aumentano di intensità. Abbruzzese lascia e il successivo tour di Vitalogy inizierà con Irons dietro le pelli. Questo sarà solo uno dei primi dei cambiamenti che investirà la band di Seattle. Benchè Vitalogy sia considerato da tutti i fans come l’ultimo vero album Grunge della storia, sia della musica che della band, era già comunque insito in esso l’aria di cambiamento che i Pearl Jam intraprenderanno con il successivo No Code. Vitalogy rappresenta a mio parere una porta, un qualcosa che rappresenta un punto netto di demarcazione tra due stanze, o aree, o vite e modi di essere, un qualcosa che chiude con il passato e apre a nuove strade, conosciute o sconosciute che siano, rimandabili ad un verso contenuto in Immortality, sto correndo nelle tenebre, di fronte ad un segnale di bivio… tutti i bravi vagabondi devono decidere.

 versus (Mirko)


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