La voce di Bono dagli esordi ad oggi

Bono singing during U2’s performance at Lucas Oil Stadium in Indianapolis, Indiana on September 10, 2017 – Foto Daniel Hazard

La voce di Bono, l’evoluzione dagli esordi degli anni 70 al 2025

“Bono è irriconoscibile”. “Bono è invecchiato male”. “Bono è finito”. “Bono non ha più voce”.
Sono frasi che tutti abbiamo letto o sentito pronunciare più volte negli ultimi 20/25 anni. Un paio le ho dette anch’io e personalmente, dalla prima volta in cui ho sentito dire la frase “Bono non ha più voce” sono passati 33 anni abbondanti. Novembre 1991, vado in bicicletta a casa di mio cugino Lorenzo, a cui devo l’inizio del mio rapporto con gli U2, per fargli sentire Achtung Baby. Lui non ha voluto comprarlo, ha ascoltato The Fly ed è rimasto sbattezzato. Lui, che li segue praticamente dagli inizi, che è stato a Bologna al Teatro Tenda il 6 febbraio 1985, teme di non riconoscerli. Ascoltiamo Zoo Station, Even better than the real thing, poi pausa. “Questi non sono gli U2 e Bono non ha più voce”. È vero? Bono un grande cantante lo è stato? Lo è ancora?

Analizzare la voce di un cantante, soprattutto di uno con una carriera lunga alcune decadi, come quella di Bono, non è una cosa facile, ma proviamo; tenendo presente che l’argomento può essere anche molto tecnico, ma cercherò di affrontare la cosa come meglio posso, perché sia il più possibile
comprensibile.
Partiamo col dire che Bono è essenzialmente un tenore. Bono dice di sé che è “un baritono che pensa di essere un tenore. No. Bono è un tenore. L’estensione della sua voce copre (copriva, ma lo diremo più avanti) le classiche due ottave del tenore (do3 – do5). Poi, è vero, il suo ventaglio si è aperto fino a toccare, nella coda di sinistra, anche note tipiche del baritono (le troviamo per esempio nel “bicchiere d’acqua” di If You Wear That Velvet Dress), ma senza quel sostegno tipico che un vero baritono avrebbe avuto.

Nei primi due album degli U2 la voce di Bono è poco dotata di armonici, è una voce esile e asciutta tanto da sembrare quasi femminile in alcuni casi.
Con War comincia a sentirsi il primo cambiamento, la voce comincia ad inspessirsi iniziando quell’evoluzione che lo porta, nel giro di pochi mesi, a ciò che sentiamo in The Unforgettable Fire.
Qui cominciano le prime incursioni consapevoli nelle note basse e compaiono consonanze che sono forse ancora primitive, ma che donano i primi accenni di profondità armonica. È ancora una voce muscolare e istintiva e lo si capisce chiaramente nel documentario dedicato all’album che ci consegna un Bono spavaldo, nel cuore di una fase in cui sta comprendendo che con la voce può fare praticamente ciò che vuole. È la dimostrazione di un potenziale enorme, una voce incredibilmente
potente ed elastica anche se sfrutta praticamente solo la gola e la compressione estrema della laringe che gli consente di arrivare al vertice alto della sua estensione, quel do#5 che caratterizza il famoso “Wide (awake)” di Bad.

Bono and U2 perform in Inglewood, California, circa 1987.
George Rose/Getty

Il Bono di TUF è cambiato anche fisicamente, spalle e petto si sono allargate e questo consente alla sua voce di essere supportata da una notevole quantità di aria che gli permette, insieme alla muscolatura della gola, di mantenere le note alte. In più è agevolato in questo dalla sua statura.
Non è una regola aurea, nel senso che non mancano le eccezioni, ma persone di bassa statura tendenzialmente possiedono corde vocali più corte (pertanto è più semplice farle aderire creando quella tipica forma ad ago che serve per le note acute). Oltre al nostro, gli esempi in questo senso
possono essere trovati nei nomi di Bruce Dickinson, Roger Daltrey, Lucio Dalla, Jeff Buckley, Freddie Mercury (gli ultimi due possono essere definiti addirittura tenori contraltini).

Con The Joshua Tree la voce acquista più maturità, più spessore e soprattutto espressività.
Questa sarà la dote principale che identificherà, più di altre, lo stile di Bono. Ed è un’espressività che è sì data dalle sue enormi doti naturali, ma anche dall’uso e dalla combinazione di alcune tecniche vocali: il fry (o movimento M0, un effetto per il quale la voce sembra friggere e per capire di cosa
stiamo parlando si può ascoltare la prima versione di Sweetwst Thing o i primi 3 versi di Mofo), la consonanza del tratto vocale (la vibrazione di alcune cavità facciali, soprattutto bocca, scatola laringea e seni paranasali nel caso di Bono, che arricchisce la voce di armonici) il passaggio di aria, il
break vocale (un istante in cui la voce sembra cadere, spezzarsi o assentarsi e che Bono a volte usa furbescamente anche per passare da un effetto all’altro) e la compressione, per andare a prendere le note più alte o per graffiare la voce.
Questo Bono nuovo lo sentiamo fin dal primo verso della prima canzone dell’album. Where the streets have no name è l’evidenza di un cantante più maturo e certamente migliore. In questo primo verso si sentono già tutti gli effetti prima citati: “I (fry) want (seni paranasali, soprattutto nella prima
parte della parola “want”) to run (compressione), I want to hide (break e aspirazione)”. Un’autentica epifania.
Nel corso del tour seguente e nelle nuove canzoni incluse su Rattle and Hum compare anche il falsetto (rotondo e potente, grazie a un movimento, innato in Bono, che rende più profonda la scatola laringea abbassando la lingua e alzando il palato molle) alternato o addirittura abbinato a volte ad una compressione molto (troppo) spinta (cfr. Heartland).
In questo tour e nella successiva leg australiana però Bono probabilmente compromette molto del suo potenziale. In molte date Bono è straripante, canta in modo eccessivo, facendo un uso smodato della compressione. Anche senza andare a spulciare la rete, ma ascoltando semplicemente il Live in Paris la cosa è estremamente evidente. Il cantato è eccessivo, sopra le righe, Bono spesso urla. Per sostenere gli acuti con l’aria, Bono si inarca portando le braccia che sorreggono il microfono all’altezza della testa. È un movimento sicuramente suggerito dal pathos, ma anche dal mancato uso
del diaframma. Bono richiama tutta l’aria che gli serve aumentando la dimensione dei polmoni, ampliandone la porzione superiore e non quella inferiore (come accadrebbe schiacciando il diaframma verso il basso). In questo modo però tutto il peso del volume ricade sulla gola, non c’è aiuto da parte della pressione dell’aria che il rilascio di un diaframma abbassato spingerebbe verso l’alto.

I danni che si è procura dal 1987 al 1989 sono enormi.

Achtung Baby e Zooropa di contro sono album meno “muscolari” per la voce di un cantante. Ci sono brani che richiedono un’ampia estensione, per esempio Who’s gonna ride your wild horses, Ultraviolet e Lemon, ma nel complesso Bono può appellarsi di più alla pura espressività. La versione
studio di One è una prova straordinaria: break, aria, fry e armonici vengono usati in maniera magistrale (live non arriverà mai a quelle vette). Nel tour che segue la band decide intelligentemente di abbassare la tonalità di alcune canzoni e Bono per fortuna non estremizza l’uso della
compressione, accontentandosi di toccare alcune note senza mantenerle per un tempo prolungato (cfr. gli acuti di Pride).

La mancanza di una vera e propria tecnica vocale presenta il conto però nell’era Pop. Le corde vocali di Bono sono martoriate da polipi, noduli ed edemi. Tutti ricordano il concerto di Sarajevo, ma anche in molte altre date la voce di Bono è in grande sofferenza.
Con l’uscita di All that you can’t leave behind e ancora di più con How to dismantle an atomic bomb assistiamo a qualcosa di diverso. Bono forse ha eseguito una pulizia delle corde vocali (ci sono cose che lo farebbero intuire, altre meno), ma certamente ha imparato a usare un po’ il diaframma (cosa non semplice a 40 anni) ed è andato a lezione di canto. A man ad a woman è una piccola masterclass di questo periodo, il cantato è magnificamente espressivo e il sostegno del diaframma è evidente.
A volte nei live perde la padronanza delle tecniche che ha certamente studiato, la voce inoltre è evidentemente meno limpida, più velata, a volte presenta qualche segno di debolezza e certamente Bono è un cantante più cerebrale e meno istintivo. Ma questo gli consente di mantenere uno stile
riconoscibile e riconducibile al Bono che tutti conoscono.
L’album No line on the horizon segna un cambiamento che avrebbe potuto consegnarci un ottimo Bono per gli anni a venire e che invece si rivelerà purtroppo un’occasione sprecata e quindi un grande rimpianto. La voce di Bono sembra ringiovanita. Si è certamente sottoposto ad un’operazione di
pulizia delle corde vocali ma (e la cosa sembra piuttosto incredibile) purtroppo torna a cantare utilizzando pochissimo il diaframma. Il 360 Tour sarà dannosissimo per la sua voce. Nelle prime due leg il rispetto portato al suo strumento è quello tipico degli eighties (quindi poco). A partire dalla
terza leg sembra correre parzialmente ai ripari. Ad esempio si comincia a risentire il sostegno del diaframma, la durata delle note acute è più breve, la compressione della laringe è meno spinta, ma alcune cose sono certamente controproducenti, ad esempio l’inizio dei concerti con due canzoni impegnative come Beautiful Day e New Year’s Day (scelta artisticamente più azzeccata di Breathe, ma una botta tremenda per la voce).


Negli ultimi due album i risultati di quel lungo tour purtroppo sono evidenti. La voce di Bono ha perso tantissimo in termini di estensione e di espressività. Per tutelare ciò che è rimasto è finalmente aumentato l’uso del diaframma, ma fry, risonanze, falsetto, armonici sono diventati una merce
rarissima, soprattutto nella parte più alta dell’intonazione e in Songs of Surrender ciò appare particolarmente evidente. Sembra quasi che tutto ciò che può distrarre Bono dal controllo e dalla tutela della voce sia stato tolto; soprattutto nei live la sua voce è secca, asciutta, in modo più evidente
nelle note acute, dove la mancanza di armonici porta troppo in evidenza quello che si chiama curbing, una modalità di canto per la quale la voce assume una caratteristica metallica. Inoltre in alcuni brani la tessitura del cantato viene adattata per evitare alla voce salti di nota troppo grandi che rendono alcuni passaggi più parlati che cantati (ad es. One o Ultraviolet nelle versioni della Sfera di Las Vegas). Il controllo è diventato eccessivo, ma inevitabile.

Non mancano per fortuna episodi in cui Bono mostra interpretazioni di grande classe, per esempio le All I want is you e la Love is blindness della Sfera (dove spesso accenna l’uso del vibrato), la cover di What’s going on o alcuni brani di Songs of Surrender (The Fly, 11 o’clock tick tock, If God will
send his angels, City of blinding lights per esempio) dove la voce mostra ancora modalità espressive notevoli, seppur in note più comode.

Quindi Bono è stato un grande cantante? Si, certamente.
Lo è ancora? Forse non è più un grande cantante rock, ma lo è ancora nell’interpretazione, nel sapersi calare dentro un brano e vestirlo al meglio. È un cantante diverso da quello dell’età dell’oro degli U2, ma ancora un ottimo cantante. È che quell’età dell’oro è stata deflagrante e splendente al punto tale da consegnarci un cantante certamente imperfetto, ma straordinario e sfrontatamente sorprendente ed è per questo che forse oggi, al di là di ciò che oggettivamente è andato perso, alcuni dicono “Bono è irriconoscibile”, “Bono è invecchiato male”, “Bono è finito”, “Bono non ha più voce”.

È diverso, ma è ancora Paul David Hewson, in arte Bono.

Filippo Baldini

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