Live Aid 1985, U2 Live Aid: la svolta iconica che cambiò gli U2

Pete Still/Getty Images

Gli anni ’80 rievocano un periodo dominato da grande positività e benessere. Parliamo di una fase storica contrassegnata da una spiccata vocazione edonistica, nelle cui pieghe, tuttavia, sobbollivano istanze di mutamento sociale che vedranno la luce all’epilogo del decennio. È un’epoca caratterizzata dal proliferante fiorire di movimenti pacifisti, in cui si ingaggia una severa lotta contro povertà e sperequazioni. Ed è proprio nel solco di questa corrente volta a debellare le disuguaglianze che, a
cavallo tra la prima e la seconda metà degli anni ’80, si registra una massiva mobilitazione della musica a scopo umanitario. A cominciare dal 1984 con il progetto “Band Aid”, un supergruppo di artisti britannici e irlandesi, capitanati da Bob Geldof e Midge Ure, che si proponeva di raccogliere fondi per l’Etiopia, afflitta da una drammatica carestia. Pochi mesi più tardi arriva la “risposta” americana, con un gruppo di quarantacinque artisti assertivamente denominato “USA for Africa”.
Entrambe le iniziative sfoceranno in singoli di straordinario successo: Do They Know It’s Christmas? e We Are the World hanno venduto complessivamente 40 milioni di copie.
Ma l’evento benefico di gran lunga più imponente, aggregante e ambizioso è stato senza dubbio il Live Aid, un mastodontico show organizzato ancora una volta da Bob Geldof e Midge Ure con il preciso intento di ricavare fondi per contrastare la fame in Africa. Il concerto andò in scena il 13 luglio 1985 e si svolse in simultanea allo stadio Wembley di Londra e al JFK di Filadelfia, davanti a oltre 170 mila persone stipate nei due impianti.
Qualche mese prima, la celebre rivista Rolling Stone se n’era uscita con una copertina interamente dedicata agli U2. La didascalia recitava: “Il gruppo degli anni ‘80”. Nonostante la prestigiosa investitura, la band di Dublino era ancora ben lungi dall’aver ottenuto un successo planetario.
L’album The Unforgettable Fire, pubblicato nell’ottobre 1984, si era issato in vetta alla classifica nel Regno Unito, ma non era andato oltre un deludente #12 negli Stati Uniti. Per tacere del fatto che gli U2, su ambo le sponde dell’Atlantico, non avevano ancora visto un solo singolo troneggiare nelle
charts. È facile comprendere, dunque, che il Live Aid si presentava come una sensazionale vetrina per Bono e soci, chiamati a partecipare al più importante concerto nella storia della musica. L’occasione di suonare davanti a circa due miliardi di persone – tante furono quelle che seguirono l’evento incollate davanti alle tv – era talmente ghiotta che ingenerò una tensione palpabile in seno al gruppo. Era una sorta di “ora o mai più”. Studiarono accuratamente la scaletta dell’esibizione. Avevano circa 15
minuti a disposizione e dovevano sfruttarli al meglio. Se c’era una possibilità di far conoscere la loro musica a quanti ancora, essenzialmente, ne ignoravano l’esistenza; se c’era una possibilità di iniziare
a vendere milioni di dischi piazzando finalmente un singolo al #1, be’, quella possibilità stava prendendo corpo proprio lì, a Wembley. “Fottuta disperazione”: così chiosò Adam, qualche tempo dopo, parlando della loro performance a Londra.

Alla fine, optarono per una setlist ruggente: Sunday Bloody Sunday, ormai elevata dai fan del gruppo a inno generazionale, che dal vivo infuocava gli animi, risucchiando il pubblico nel vortice di un echeggiante grido di dolore: “How long must we sing this song?”; Bad, un’ipnotica cavalcata che
distillava il meglio degli U2, grazie alle epiche e catartiche interpretazioni di Bono; ed infine Pride, una scelta obbligata, in quanto era il singolo di maggior successo sino ad allora. La inserirono come pezzo di chiusura, in modo che rimanesse ancor più scolpita nella mente degli spettatori. Era il brano più importante dei tre.

Come è andata lo sappiamo tutti. Dopo l’esecuzione di Sunday Bloody Sunday, persino meno incendiaria rispetto agli standard, Bono si scatenò in Bad, smarrendo completamente la cognizione del tempo. A metà brano, durante l’assolo di chitarra, si cala nel sottopalco e inizia a chiamare a sé la
folla con ampi cenni. Non era qualcosa di inedito, perché il leader degli U2 cercava sempre, durante i concerti, di instaurare un rapporto simbiotico con i fan. A Londra, però, la situazione stava degenerando, con la calca in preda all’adrenalina che si stava ammassando sulla transenna. Vengono
tirate fuori due ragazze. Ma Bono non è ancora soddisfatto. Inizia ad impartire concitate direttive alla security, mulinando il braccio e indicando il da farsi. Sbraita, si dimena, ma senza esito. Nessuno capiva cosa volesse il cantante. Allora Bono, un po’ frustrato, perde la pazienza e con un balzo di un paio di metri scende dabbasso per condurre le operazioni in prima persona. Dalla massa viene estratta una ragazza, visibilmente frastornata per essere stata quasi inghiottita dalla pressione della calca. Si chiama Kal Khalique. Diventerà un’accanita fan degli U2, sebbene quel giorno, paradossalmente, fosse lì per gli Wham (in realtà il duo pop britannico si esibirà separatamente). Davanti alle telecamere di tutto il modo, Bono abbraccia Kal, le prende dolcemente la mano e lascia che la ragazza appoggi
la testa esausta sul suo petto. Inizia così a danzare soavemente con lei sulle note di Bad. Chiunque di noi chiuda gli occhi, proprio ora, vedrà materializzarsi quell’istantanea, ormai cristallizzata nella mente e nel cuore di ogni fan. Mentre la ribollente bolgia di Wembley è investita dal poderoso riff di The Edge, Bono, madido di sudore, si scava una nicchia rarefatta e danza come se il tempo fosse destinato a fermarsi lì. Un’immagine dirompente e suggestiva, assurta a manifesto del Live Aid, che si piazza ai primissimi posti dell’iconografia della band di Dublino. Per potere evocativo ed emozioni suscitate, fa il paio con lo scatto che, un paio d’anni prima, aveva immortalato Bono, mano sinistra tra i capelli, stagliarsi fra i fiammeggianti affioramenti di arenaria del Red Rocks.

Frattanto, il resto del gruppo allunga l’assolo di Bad a dismisura. Racconteranno Edge, Adam e Larry che, ad un tratto, videro Bono scomparire nel nulla, perdendone completamente le tracce. Udivano solo il crescente boato del pubblico, ma ignoravano ciò che stava accadendo. Il frontman poteva essere caduto, poteva essersi ferito, poteva addirittura essere morto. Loro non lo sapevano. I tre seguitano a suonare nervosamente, finché, dopo un paio minuti, il cantante riemerge. Raggiunge la piattaforma sotto il palco, dove, nel frattempo, erano state fatte salire le prime due ragazze estratte dalla folla. Le abbraccia e si fa passare il microfono, ma anziché terminare il brano, lo allunga ulteriormente, coinvolgendo gli spettatori in una serie di snippet (Ruby Tuesday, Sympathy for the Devil, Walk on the Wild Side). Qualche anno più tardi, Larry confesserà che avrebbe voluto smettere di suonare per andare a prenderlo personalmente a calci nel culo. Bad era stata programmata per durare circa 7 minuti. I minuti, invece, furono 12. La possibilità di eseguire il loro pezzo di maggior successo, Pride, era così sfumata. Mentre Edge, Adam e Larry si avviano alla chiusura del pezzo, Bono non aspetta sul palco per congedarsi insieme ai compagni. Era consapevole di averla combinata grossa. Grossissima. Senza incrociare il loro sguardo, alza la mano per salutare il pubblico e prende in solitudine la strada dei camerini. Qui, più tardi, scoppia anche una mezza lite. Gli altri componenti del gruppo, e lo stesso McGuinness, redarguiscono aspramente Bono per la dissennata scelta di
prolungare Bad, gettando alle ortiche l’opportunità di far ascoltare a due miliardi di persone l’unico singolo che aveva funzionato a livello di airplay radiofonico. Insomma, mentre lasciavano Londra,
la sensazione che serpeggiava un po’ fra tutti, da Bono fino all’ultimo dei tecnici, era quella del fiasco totale.
Bono ne era conscio e, come un pugile colpito da un gancio al volto, decide di andarsi a leccare le ferite a Dublino. A casa sua, da solo. Parte subito, senza salutare nessuno. Il giorno dopo lo show, entra in un pub col chiaro proposito di svagarsi e farsi una birra. Ad un tratto, viene avvicinato da un
signore che aveva in mano una tela.

“Lo vedi questo?”, gli fa il tipo allungando la tela in direzione del cantante.
Bono lancia una rapida occhiata e vede quello che sembrava un parapetto con un tizio in procinto di saltare.
“Cos’è?” domanda Bono perplesso al tipo con le braccia ancora protese verso di lui.
“È una mia opera. L’ho chiamata “Il salto”. Sei tu a Londra”.
Bono resta esterrefatto. Forse quel gesto folle non era poi stato così folle, pensò sogghignando. Allora prende la rassegna stampa, che sin lì aveva accuratamente evitato poiché convinto di leggere critiche al vetriolo sul conto degli U2, e realizza subito che le cose erano andate molto diversamente. In tutti i giornali, dal primo all’ultimo, campeggiava la foto di Bono che danzava con Kal Khalique. I commenti erano entusiastici e il gruppo veniva acclamato a gran voce per aver scardinato con coraggio le barriere tra rockstar e pubblico. Erano stati proclamati, a furor di popolo, i veri trionfatori del Live Aid insieme ai Queen.
Anche stavolta ce l’avevano fatta.
Di lì a poco, le vendite di The Unforgettable Fire e degli album di catalogo godettero di un’impennata senza precedenti.
Non c’era miglior viatico per avvicinarsi alla registrazione dell’album successivo. Quello che, ad ogni costo, avrebbe dovuto consacrarli a livello commerciale, catapultandoli nell’Olimpo del rock.
E così sarà.
Il 13 luglio 1985, quasi nove anni dopo l’annuncio alla Mounte Temple, è la data della svolta nella
carriera degli U2.

Di Gianluigi Cima

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