Zoom On Music: Unknown Pleasures – JOY DIVISION

Unknown Pleasures – Joy Division

Anno: 1979
Prodotto da: Martin Hannett
Registrato: Strawberry Studios, Stockport, England
Formazione: Ian Curtis vocals (voce), Bernard Sumner (chitarra, tastiere),
Peter Hook (basso), Stephen Morris (batteria)

Lato A
1. Disorder
2. Day of the Lords
3. Candidate
4. Insight
5. New Dawn Fades

Lato B
1. She’s Lost Control
2. Shadowplay
3. Wilderness
4. Interzone
5. I Remember Nothing

“Then love, love will tear us apart again.
Love, love will tear us apart again” (Ian Curtis)

Il termometro della stazione segna 3° gradi. 03:50 PM. Sto seduto sul treno che da Manchester mi porterà a Salford prima della notte gelida del Greater Manchester.
Il treno parte e cominciano a scorrere davanti ai miei occhi gli scorci di periferia, prati ricoperti di ghiaccio e neve, il sole non è neanche pallido, il cielo è di un grigio che quasi ti fa pensare che non cambierà mai più colore. Scorro stancamente il lettore mp3, ma nulla mi induce a premere play fino a quando Unknown Pleasures/Disorder ….PLAY……
Un giorno un amico mi chiese di associare ad ogni stagione un gruppo, di getto dissi Joy Division. E’ evidente che non siamo di fronte ad una formula matematica, ma la musica evoca immagini e le immagini e le sensazioni trovano nella musica un importante veicolo emozionale. Le associazioni sono molto personali ma indubbiamente sono indicatori della percezione di chi ascolta e della potenza di chi crea.
Unknown Pleasures rappresenta il primo tempo di un autoritratto glaciale, una fredda ed analitica rappresentazione di se stesso, del proprio dolore, della propria solitudine. La musica dei Joy Division si sviluppa su linee melodiche geometriche e taglienti, su battiti convulsi ma regolari, lucida trasposizione della severa autoanalisi di Ian Curtis. Unknown Pleasures è forse l’urlo disperato più “silenzioso” e “coraggioso” che il rock ricordi, e anche il freddo a volte può scaldare o scalfire l’ascoltore; può essere così forte il dolore tanto da invertire semanticamente le cose? Può “l’amore separare e non unire”?
Unknown Pleasures ci proietta in uno scenario desolante, nell’anima di una persona forse già rassegnata al proprio destino e che suo malgrado lascia alla musica, insieme al seguito Closer, una drammatica testimonianza di quanto la disperazione, unita al talento, possa diventare un catalizzatore speciale di un capolavoro.

Miglior incipit di Disorder non poteva esistere. E’ un vero e proprio manifesto della band. Basso e batteria disegnano una ritmica incalzante mentre Ian Curtis spiega la sua voce nervosa sul tappetto sonoro di Sumner. La gravità della voce di Curtis ci introduce alla nevrosi della musica dei Joy Division e sono rare le aperture melodiche a smorzare una tensione palpabile. Day of the Lords entra di diritto nell’olimpo del dark segnando uno degli episodi più seminali del disco: i Sister of Mercy non ne usciranno indenni. Il lento incidere unito ad una sinth apocalittico rende il brano angoscioso, cupo e perfino tetro, Lars Von Trier potrebbe farne un egregio utilizzo.
Con Candidate il ritmo rimane compassato ed in un certo senso il pezzo stilisticamente anticipa il leitmotiv di Closer. Curtis sussura e tenta di urlare, il basso amorfo e gli echi delle chitarre, che sembrano provenire da stanze buie e vuote, intimoriscono, preannunciano la sconfitta, il lento soccombere al mal di vivere; improvvisi rumori metallici quasi anticipano in una forma primordiale quello che l’industrial regolamenterà.
Insight si riallaccia a Disorder : una ritmica regolare, spezzata unicamente da improvvise scariche elettroniche che minano la gelida e studiata “monotonia” del pezzo, supportano un Curtis rassegnato che con voce sommessa rivendica il proprio coraggio di fronte all’ineluttabilità del destino.
Con New Dawn Fades Ian Curtis a tratti forza il suo timbro baritonale verso l’alto ed accompagna forse uno degli episodi più melodici del disco. La chitarra disegna trame di rara bellezza anticipando in parte alcune soluzioni che i Cure di seconda generazione adotteranno. L’atmosfera rimane cupa e “periferica”; ascoltiamo musica che sembra provenire dall’angolo in penombra, la ritmica è matematica, solo le chitarre danno un senso di “apertura” al brano.

La claustrofobia ritorna immediatamente con un altro grande classico del disco, She’s Lost Control. Peter Hook sale in cattedra ricamando un ipnotico giro di basso e sorreggendo un Curtis mai così monocorde; una batteria insanamente fredda ed impersonale ed un Curtis apparentemente distaccato, quasi ad esorcizzare la malattia di cui lui stesso è vittima, racconta la morte di una ragazza epilettica.
Shadowplay
, uno dei brani più celebri del Joy Division, si apre con un riff di basso accattivante arricchito dalla chitarra tagliente di Sumner e si impone forse come il brano più radiofonico dell’album:una vera hit post-punk.
Wilderness
si ostina a proporre una linea di basso pesantissima e distorta sorretta da un incisivo Morris, il brano è rabbioso e la critica alla Chiesa decisa. Interzone si apre inaspettatamente con un riff quasi di zepelliniana memoria e rappresenta l’episodio meno riuscito allontanandosi leggermente dal mood del disco. Ci pensa l’epilogo I Remember Nothing a riportarci su binari più marcatamente new-wave; il lento incedere e la decadente voce di Ian Curtis involontariamente anticipano il testamento spirituale di Curtis, quel Closer che al pari di Unknown Pleasures segnerà un passagio obbligato per qualsiasi band che si volesse cimentare con il genere. Il disco si spegne sul battere inerziale di Morris e su sinistri echi elettronici, rassegnazione e disperati gridi della coscienza.

Se gli anni ’90 scandiscono indubbiamente i tempi di una restaurazione rock recuperando in parte il primo quinquennio degli anni 70, l’inizio del nuovo millenio vede il nascere di band profondamente influenzate dalla decade ’80 e dal vasto movimento new wave. Ad oggi molto di ciò che impropriamente viene catalogato sotto la voce indie-rock, risente dell’eredità lasciata dal quartetto inglese. Gli stessi frontmen, in molti casi aiutati da una predisposizione personale, ricalcano il timbro baritonale e le cadenze monocordi di Ian Curtis; è chiarissima la pesante influenza dei Joy Division su gruppi quali Horrors, Editors, White Lies, White Rose Movement e se ne potrebbero citare a dozzine appartenenti al dilagante e a volte anche stucchevole revival anni ’80 dell’ultimo decennio.

Ma la poetica dei Joy Division non rimane certamente confinata nell’underground britannico e i più o meno contemporanei Robert Smith (The Cure) piuttosto che Bono (U2) o ancora Siouxsie and the Banshees, Sisters Of Mercy e Echo & The Bunnymen non furono indifferenti al dramma di Curtis ed alla potenza evocativa delle sue parole. Unknown Pleasures prima, con un sapore più propriamente post-punk new wave, e Closer un anno dopo, scrivendo una pagina importante del filone dark, rapprensentano delle vere e proprie pietre miliari che delimitano da una parte i canoni di genere, ma non meno importante, anche un perimetro estetico per generazioni di musicisti innamorati del filone dark-wave. Pur nascendo in pieno clima punk, in una scena inglese pervasa dal nichilismo più o meno serioso di Sex Pistols e Buzzcocks, i Joy Division con Unknown Pleasures non danno voce ad una denuncia di sistema bensì sussurono, apparentemente e paradossalmente senza alcun coinvolgimento, l’oppressione interiore a cui Ian Curtis sta soccombendo; facendo propria la lezione dei Velvet Underground, i Joy Division riescono in una esplorazione totale dell’animo umano mettendo stoicamente a nudo le proprie debolezze.

Guardo fuori dal finestrino, appaiono le prime luci della cittadina inglese, operai tornano a casa dal lavoro, per strada un gruppo di ragazzi vestiti in total black caricano le loro chitarre in macchina……..Ok Stop, stazione di Salford….scendo, è notte, per la luce c’è tempo…..

zooman

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