Zoom on Music: “Who’s Next” – The Who

Who’s Next
The Who

Anno: Agosto 1971
Musicisti:

Roger Daltrey – lead vocals, harmonica
Pete Townshend – guitars, organ, VCS3 and ARP synthesiser, backing vocals, piano
John Entwistle – bass guitar, backing vocals, brass, lead vocals and piano on “My Wife”
Keith Moon – drums, percussion

Tracklist

1- Baba O’ Riley (5’08)
2- Bargain (5’32)
3- Love Ain’t For Keeping (2’10)
4- My Wife (3’40)
5- The Song Is Over (6’13)
6- Getting In Tune (4’50)
7- Going Mobile (3’42)
8- Behind Blue Eyes (3’41)
9- Won’t Get Fooled Again (8’32)

Ci siamo, questo è stato l’inizio glorioso che un gruppo come i The Who avevano il diritto ad avere.
Pete, Roger, John e Keith si erano conosciuti a scuola, come moltissimi altri gruppi che hanno fatto la storia della musica: Genesis, U2, The beatles… non c’è bisogno di ricordare come una semplicissima scuola possa essere importante per delle band emergenti . . .
E come tali hanno avuto un periodo di formazione, di scoperta di se stessi, di sperimentazione si, ed anche di perdizione musicale.
Si pensi a quanto possono sembrare acerbi album come “The who sings my generation” (1966) e lo stesso “Tommy” (1969) può essere per moltissimi versi ritenuta ancora una storiella surreale rispetto a un mostro come questo o ancor di più al capolavoro del gruppo “Quadrophenia” (1973).
Si pensi alle esibizioni live del gruppo, dai primi anni al periodo d’oro del tour a supporto di Quadrophenia sono cambiati moltissimo: si possono trovare facilmente prove su youtube a supporto della tesi della nascita del gruppo in queste fasi della loro storia.
Dalla celeberrima esibizione televisiva di “my generation” agli esordi della loro carriera è evidente la giocosità e la superficialità dell’approccio, dai vestiti ai movimenti, dalla balbuzie simulata di Roger alla mania bambinesca ed egocentrica di spaccare gli strumenti alla fine dell’esibizione.
Anche la partecipazione al festival di Woodstock non può essere considerata musicalmente incisiva, la scaletta, che comprendeva soprattutto l’esecuzione di Tommy, non gli permetteva ancora di “lasciare il segno”.
Ma, soprattutto per i The Who, Woodstock non fu importante in se per la caratura dell’evento e la fama che portava, ma più perchè finito Woodstock la storia della musica rock cominciò.
Woodstock da considerare come lo spartiacque. E nei The Who questo è evidente.
Woodstock da considerare come la morte del rock simboleggiato dai beatles e dai rolling stones, e la nascita del rock dei led zeppelin, e dei The Who appunto.
Subito dopo infatti abbiamo l’elettrizzante “Live at Leeds” (1970), un live che già dimostra una certa maturità e abbandono dell’approccio beatlesiano.
Avevano bisogno di un miracolo forse, di una grazia divina che scendesse su di loro e che gli avesse permesso di produrre qualcosa di veramente sacro per la storia della musica rock.

Questo avviene nel 1971, anno che appartiene al periodo d’oro della musica rock (1970-1975) dove tutto è stato fatto e non potrà mai essere rinnegato, anno fantastico che da alla luce capolavori dei più famosi gruppi rock.
L’album nasce dall’abbandono da parte di Pete di un secondo concept album, futuristico e troppo ambizioso, “ Lifehouse” con ancora la voglia di legare musica rock, teatro e cinema: il progetto fallisce miseramente e il gruppo si ritrova materiale da pubblicare non sapendo come.

La copertina è già tutta un programma: un’ambientazione totalmente surreale, un terreno roccioso scosceso con una struttura di cemento armato posta in primo piano che non ha ragione di essere.
Ad ogni componente della band corrisponde una macchia proiettata sul cemento, macchie che non possono essere ombre, la direzione della luce non lo permetterebbe.
I musicisti si stanno però allacciando la cintura dei pantaloni, ecco il messaggio che questa geniale copertina ci vuole dare: urinare su una struttura in cemento armato senza vita e artificiale significa rigettare tutto il passato, purificarsi dai vizi, dai problemi e dallo stress della società moderna, rivolgersi da uomini veri verso il paesaggio selvaggio. Questa è anche la metafora del disco: ripulire i rifiuti e buttarsi a capofitto sul rock con un approccio stavolta veramente artistico.

Alcuni indimenticabili pezzi rock sono contenuti in questo disco, fra tutti alcuni devono essere portati nell’aldilà, rimarranno l’eredità che il genere umano deve lasciare ai posteri: “Baba O’ Riley”, “Behind Blue Eyes” e “Won’t Get Fooled Again”.
L’album si apre con “Baba O’Riley”, introdotta da un divino e artisticamente perfetto pezzo di sintetizzatore e piano che permette già alla mente di elevarsi e sognare , la traccia si accende con l’entrata della batteria di Moon: qui i due livelli musicali si toccano senza essere uguali, come due amanti che si cercano e si amano senza mai riuscire ad unirsi, un’impresa che solo un batterista come Keith Moon può compiere. Qui la batteria riesce ad essere melodia, riesce ad avere una voce, cosa irripetibile. Il pezzo è un esperimento musicale di mescolamenti di più generi: come spesso accade per i pochi veri capolavori rock, una traccia ne contiene altre al suo interno, certamente non come succede per le suite rock, ma le digressioni balzano all’orecchio vistosamente. Il basso è incisivo ma, caso praticamente unico per la storia della band, poco virtuoso, segue il motivo del piano per tutta la durata del pezzo facendo da colonna portante del pezzo. Contemporaneamente al basso irrompe anche la voce Daltrey tanto decisa e graffiante in questo frangente, parla di disperazione e di valori morali persi ma anche della cultura come mezzo di salvezza, quanto limpida e pulita nella parte centrale. E poi il finale: le note di un violino che vogliono essere consolatorie, tentano di rimandare a melodie orientali, dolci, si uniscono con rapidità alla moltitudine degli altri suoni fino a metterci il cuore in gola arrivando alla fine.

“Bargain” e “My Wife” rappresentano invece il ritorno sulla terra, i testi si fanno più antropomorfici, ma la musica ha veramente la meglio. John Entwistle riacquista la sua tipica capacità di creare una base in continuo movimento, dinamica e in quanto tale adattabile a qualsiasi melodia, così diversa dai riff ripetitivi che molti suoi colleghi scrivono e specialmente scriveranno in futuro. In Bargain e Behind Blue Eyes più di altre mostra la sua più virtuosa caratteristica, che lo renderà uno dei più amati bassisti di sempre per le note di Quadrophenia, che è quella di prendere la parte della melodia, storicamente compito della chitarra, e lasciare alla chitarra la sezione ritmica.
“Bargain” e “My Wife” sono veramente un’orgia di suoni e di potenza rock, dove la voglia di muoversi ha la meglio, ma ancora non siamo al livello più alto.

Il disco contiene anche una deliziosa e saporita ballata semiacustica d’amore: “ Love Ain’t For Keeping” ha forti influenze Blues.
“The Song Is Over” comincia con il suono dolce, fine e quasi paradisiaco ma terribilmente incisivo del pianoforte che accompagna una sognante voce di Daltrey, che ad un certo punto si trasforma diventa solenne, arrabbiata che crea un coinvolgente e ripetitivo motivo che rimane in testa. Il finale è consegnato direttamente alla batteria ma il vociare ripetitivo del ritornello “…the song is over…” non può non rimanere impresso.

“Behind Blue Eyes” è La Ballata d’Amore per antonomasia dei The Who, e una delle più strappalacrime della musica rock, anche per il suo cambio di ritmo: diventa aggressiva, inizialmente sembra starci così male un attacco violento di Pete che rompe la dolcezza della melodia, ma poi si capisce che questa è proprio la rabbia e ‘l’agire per amore’ che il gruppo voleva ritrarre.
Inizialmente è John Entwistle che riprende la melodia in mano e ne fa ciò che vuole: sali e scendi di basso danno fastidio all’arpeggio di chitarra acustica e Roger cerca il più possibile di essere imparziale e dolce, cori di disperazione e apprensione sembrano voler supportare la voce.
Uno dei passi più famosi dell’album è : lui sì è l’uomo perduto nel torbido delle cattive abitudini e della malavita, ma ancora sogna, riconosce di sognare, perché riconosce di essere umano e ha dei sogni, sogni d’amore.
Al cambio di ritmo entra la batteria, violenta e rozza, la chitarra adesso è elettrica e il basso non si pone più limiti: i testi diventano di autocommiserazione, quasi sadici.
Il ritorno al tema iniziale sta a significare che tutto, dal più grande degli amori al più grande impeto d’ira, ha una fine, e questa è metafora di un nuovo inizio: l’inizio di un nuovo amore, di una nuova vita, e di una nuova canzone… si tratta di Won’t Get Fooled Again.

Sintetizzatore ancora: questo ci ricorda la prima traccia, ma accordi e basso aprono le porte del paradiso alla batteria. Keith in questo frangente è la perfezione formale: il suono è pulizia assoluta.
I suoi tocchi dettano il ritmo al cuore dell’ascoltatore mettendo in movimento l’immaginazione, facendola rimbalzare in continuazione. La voce stavolta è pulita, poco graffiante, ma i temi sono graffianti eccome, come se Roger volesse giustificare l’invito alla rivoluzione morale con una compostezza formale. In un fraseggio addirittura c’è un richiamo scherzoso allo stile di Dylan.
Alcuni sparsi instanti di silenzio ci mettono all’erta, poi la batteria ricomincia il suo corso.
In molti frangenti si ha proprio l’idea della perfezione musicale: i suoni sono sia omogenei fra loro che perfettamente rock.
Pete Townshend ha l’essenziale compito di fare da chitarra ritmica: predilige catene incorruttibili di accordi a banali assoli. I suoi accompagnamenti acustici sono solo apparentemente timidi e ritmici, i suoni si sovrappongono a volte riuscendo a riflettere e riemergere dalla melodia suonata dagli altri tre componenti. La varietà di armonie e accompagnamento sembra prodotta da un’insieme di chitarre: si nota la capacità, unica di questo favoloso chitarrista ma espressa meravigliosamente più in Quadrophenia, di Pete di usare la chitarra d’accompagnamento per creare una base che può essere concepita come un’orchestra, una sostanza che compatta il tutto chimicamente.
Molti passaggi risultano proprio incantabili se non ci fosse questa chitarra ritmica.
Il sintetizzatore continua per tutta la traccia, il basso di John non sostituisce la chitarra come in Quadrophenia, ma ripete motivi sobbalzando in continuazione legato indissolubilmente al sintetizzatore.
L’ultima parte del pezzo, in chiusura dell’album, è un rock duro ma elegante, non è becero volgare e grezzo come altri generi, anche se il tema dell’urlo rimanda all’heavy metal.
La batteria cavalca il suono del sintetizzatore che prende temporaneamente il ruolo di protagonista, un urlo di rabbia spacca il tempo e lo spazio, lo sfogo prende vita, acquista mano mano sempre più dimensioni, per ultima la dimensione umana: non più il bisogno di urinare contro la società moderna descritto dalla copertina, non più la voglia di buttarsi il passato alle spalle, purificarsi e cambiare vita, ma il bisogno irrefrenabile di riprendersi la propria vita, la propria felicità, riacquistare valori morali persi e tanto sognati da fanciulli.
Questo grido di rabbia non è paragonabile a nessun altro schiamazzo volgare e insensato immaginabile da una persona che non conosce questo modo di fare rock.
Roger così accusa ciò che ci nega la felicità, non abbassa la testa, questo rock non ci sta, reagisce.

Potrò leggere e rileggere questa recensione mille volte e troverò sicuramente imperfezioni e altro da dire: questo perché un’opera di questo calibro entra talmente a far parte della tua vita che ti modifica e ti imprime degli ideali di libertà e salvezza introvabili altrove.
Giù il cappello, questo è ciò che ci deve rendere fieri di essere esseri umani. La musica è vita.

Ettore Morosini

Lascia un commento