Il vincitore del contest dedicato al libro Sogni ad alta voce, scritto dal nostro amministratore Rodolfo Urbinati, è GIUSEPPE SUPINO, che riceverà una copia del libro. Ringraziamo tutti i partecipanti che come Giuseppe hanno condiviso con noi una loro esperienza legata agli U2.
I can’t live without you…
In ogni storia d’amore sono soprattutto i primi istanti quelli che si fisseranno poi nella mente e nel cuore in maniera indelebile. È una specie di risveglio, o un’immersione nel sogno, un qualcosa che ci incuriosisce, ci avvince, si è trascinati, quasi contro la nostra volontà. E fu così che quando vidi a Superclassifica show quel tizio in gilet di pelle e con il codino, in una stanza buia, quelle ombre che si aggiravano oltre la luce del faro in primo piano, capii che qualcosa di straordinario stava succedendo. C’era un che di arcano, di non comune, di grande nel video di With Or Without You, così lo percepivo all’epoca, avevo sedici anni. Quell’intreccio dei suoni del sintetizzatore ascendente e poi calante, l’indimenticabile linea di basso, il martellare così inconsueto di Larry sulla cassa e in ultimo la chitarra tagliente, come una lama, la voce profonda di Bono, tutto insomma contribuiva a creare un’alchimia. L’ho studiata fin nei minimi particolari quella canzone, è proprio vero che il capolavoro si ha dalla perfezione di ogni suo singolo elemento. Ogni suono del brano è una perla, un qualcosa che ho assaporato negli anni quasi come se fosse una leccornia. Ricordo che sentii di nuovo il brano in un bar e di nuovo provai quella sensazione indefinibile… Qualche giorno dopo, durante una puntata di Discoring mi sembra, l’annunciatrice (di cui non ricordo il nome, aveva tratti asiatici) disse con un misto di sorpresa e di compiacimento che gli U2 erano balzati direttamente al primo posto in classifica! Allora collegai il brano al disco e mi dissi che doveva essere una band tosta, come si diceva in gergo, un vero fenomeno… Misi da parte i soldini e nel far questo rinunciai per un po’ alle giocate ai videogames e al biliardino, e una bella mattina di marzo del 1987, raggiunta la somma che mi serviva, mi recai al negozio di dischi ed acquistai finalmente la musicassetta di The Joshua Tree (costava all’epoca quattordicimila Lire). Mi apparvero tra le mani questi soggetti pensierosi, dall’aspetto poco curato, nel deserto, alle loro spalle quell’albero nero simile ad un ragno; notai che i colori dominanti erano il grigio e il nero, gli stessi colori del video, e di nuovo quella sensazione… Corsi a casa per immergermi in quel mondo misterioso. Ad un primo ascolto non ci capii nulla, era un assordante susseguirsi di chitarre, un qualcosa che per me adolescente, che ascoltavo quelle robette commercialissime degli anni ’80, era assolutamente ostico. Non riuscii ad andare oltre Bullet The Blue Sky, quelle chitarre erano troppo taglienti per le mie orecchie. Ahimè, il fascino esercitato da With Or Without You costituì un fatto isolato, l’intero album mi appariva sicuramente grande, ma inascoltabile. Passarono circa due settimane, avevo quasi dimenticato The Joshua Tree, ma With Or Without You, che ascoltavo spesso alla radio, fu una specie di canto delle Sirene, che mi spinse a rimettere TJT nel mangianastri. Bene, sentii solo Where e Still: la seconda non mi trasmise nulla a livello emotivo, ma Where stava già facendo breccia, rompendo muri interiori... Era un elemento della natura, l’infinito, l’apertura alare della fantasia, si respira a pieni polmoni, tutti i confini infranti, le strade non più segnate da nomi… Capii in quel preciso istante che la vita, la vera vita, non è costrizione nei ristretti limiti delle abitudini, e capii che la mia vita sarebbe cambiata… Cambiata interiormente voglio dire, ero e rimanevo un liceale che faceva il suo dovere, un ragazzo educato con gli adulti, cordiale e generoso con gli amici, ma un po’ alla volta notai che i miei gusti, le mie abitudini, in maniera inconsapevole, prendevano una traiettoria ben precisa. Sapevo innanzitutto e con precisione quello che non volevo essere: non volevo essere un paninaro, non volevo indossare le Timberland, i jeans a tubo con risvolto, non volevo portare i capelli a spazzola (ironia della sorte il Bono del 2013 ha proprio i capelli a spazzola)… Non volevo essere come tutti gli altri, insomma. Volevo assomigliare a quei ragazzi nel deserto. Mi sembravano veri, senza sovrastrutture, soggetti che ti sparano in faccia la verità senza tanti fronzoli. Presi l’abitudine di vestirmi come loro, perlomeno ci provavo: indossavo questo gilet di pelle (era azzurro, ma non trovai nulla di meglio al mercato), mi feci crescere i capelli e avevo una grande croce che pendeva sul petto. Avrei indossato anche un cappello a larghe falde, ma proprio non lo trovai nel mercato. Identikit perfetto: ero Bono! Qualcuno mi prendeva in giro per quel mio modo di agghindarmi, ma quella era la mia essenza…. sì, ero tutto in quel mio modo di presentarmi. Sono passati tanti anni, oggi sono un prof di Lettere in una scuola media, mi vesto come un rispettabile signore di 42 anni, non c’è nulla in me che mi distingue dagli altri, eppure qualcosa di non lineare emerge sempre in piccole dosi, sul lavoro, nel rapporto con gli altri: è quella sete di libertà che provo ancora quando ascolto Where, è il desiderio di giustizia di Pride, il tormento interiore di With Or Without You. C’è sempre qualcosa di U2 in ogni cosa che faccio, non necessariamente degli U2 che ho poi conosciuto meglio negli anni, ma di quell’idea primordiale (che qualche fan chiama Fuoco Indimenticabile) che mi cambiò la vita quando avevo sedici anni. La musica oggi, con le responsabilità sopraggiunte in età matura, non è più il fuoco sacro di una volta, chiamiamola pure una fede, sebbene non saprei farne a meno; eppure gli U2 sono sempre nei miei pensieri, a ricordarmi che la vita è bella, è fatta di viaggi con la fantasia sulle note del pentagramma, piena di suggestioni, imprevedibile come un album sperimentale… La bellezza cambierà il mondo, disse qualcuno, e io voglio ancora crederci.
Giuseppe Supino